APPRENDIMENTO
TRA NATURA E AMBIENTE. Riflessione sui DSA.
Lo scorso 9 aprile si è tenuto nelle Marche, a
Loreto, il Convegno Nazionale dal titolo: “Apprendimento tra natura ed ambiente.
Riflessioni sui DSA”.
Il Convegno ha visto la luce in un periodo in cui
il più vasto movimento psicoanalitico sembra mostrare interesse per una
tematica rimasta in questi anni, nel Movimento, molto in ombra: i disturbi di
apprendimento nell’infanzia. N. 125 i partecipanti presso il Teatro Comunale:
il 50% insegnanti e personale del mondo della scuola in genere; l’altro 50%
composto da psicoterapeute, psicoanaliste e da professionisti della “sanità”.
Chairman della mattinata la Dott.ssa Carla Busato Barbaglio che ha aperto i lavori a nome del
Centro di Psicoanalisi Romano di cui è Presidente.
La Dott.ssa partendo dal riconoscimento di un
impasto tra mente e corpo si è interrogata sulla specificità della crescita
umana. Le nostre esistenze, i nostri cervelli, il nostro soma sono sistemi
complessi in continua interazione tra loro che si riorganizzano per tutta la
vita. Una grande quantità di ricerche e di studi degli ultimi 20 anni nel campo
evolutivo e neurobiologico postula che il cervello umano sia biologicamente
progettato per essere strutturato dalle esperienze sociali: cognizioni ed
affetti sono un impasto unico. Alcuni studi recenti mostrano come le stesse
strutture cerebrali che presiedono alla organizzazione della esecuzione motoria
abbiano un ruolo nella comprensione semantica del linguaggio. Pare che molti
disturbi attuali dell’apprendimento siano legati all’introduzione (negli USA
dal 1930, in Italia dal 1970) del metodo globale: problemi di lettura che
alcuni hanno denominato “dislessia educativa”. Un insegnante segnalava: negli
ultimi anni dapprima è comparso il “disturbo dell’attenzione”, poi il “disturbo
dell’iperattività”, poi il “disturbo oppositivo provocatorio”, poi il “disturbo
della condotta”, poi “la dislessia”, poi “la disgrafia”, poi “la discalculia”…
ma verrà introdotta anche la “distrigonometria” o la “discalculia
infinitesimale”? E’ utile porsi interrogativi sulle ondate diagnostiche legate
a problemi inediti e a non saper aspettare i tempi diversi dei bambini
preferendo etichettarli prematuramente. Ha poi confidato che il Convegno possa
essere proficuo nel rispondere almeno ad alcune
delle numerose domande che è lecito porsi quando ci si addentra nei meandri dei
disturbi di apprendimento.
Il ripristino di funzioni deficitarie dovrebbe
comunque prevedere, come suggerisce Shore, programmi psico-educativi dove oltre
all’aspetto cognitivo ci si prenda cura anche dell’aspetto relazionale.
Il Dott. Ferdinando Benedetti ha presentato il racconto di due situazioni di ragazzi (già precedentemente
valutati da altri servizi privati e pubblici) entrati in valutazione presso una
Unità Multidisciplinare per l’Età Evolutiva, per il rinnovo della diagnosi di
DSA in vista dell’esame di terza media: il risultato sorprendente è stato, a 13
anni, “il ritardo mentale” (la diagnosi di DSA prevede l’assenza del ritardo
mentale). La tesi sostenuta dal dott. Benedetti non si è limitata ad evidenziare
gli effetti iatrogeni di un eccesso di diagnosi di DSA oggi in Italia, ma ha
sottoposto a critica lo stesso costrutto del Disturbo Specifico di Apprendimento.
Nel manuale ICD-10 infatti il costrutto è riferito esclusivamente a cause di
carattere neurobiologico. Il che entra in contraddizione con quanto le stesse
neuroscienze e non solo la psicoanalisi hanno messo in luce negli ultimi anni:
l’intreccio inestricabile di fattori biologici e fattori emotivo relazionali
nello sviluppo degli individui a partire dai primi mesi di gravidanza. In virtù
di tale intreccio diventa pertanto impossibile stabilire l’esistenza di una
causa neurobiologica del disturbo di apprendimento. Ne discende, per coerenza
logica, che i disturbi di apprendimento sono tutti aspecifici in quanto
indissolubilmente legati alla storia biologico-emotivo-relazionale del
soggetto.
Il prof. Giuseppe
Cossu,
neurobiologo, ha parlato dell’origine multifattoriale dei disturbi di
apprendimento e delle scoperte dell’epigenetica: le cellule neuronali appaiono
oggi particolarmente plastiche e trasformabili durante tutto il corso della
vita.
Ha illustrato il metodo della ricerca
neuropsicologica rivolta a studiare la lettura e la scrittura come meccanismi
neuro funzionali. La ricerca deve primariamente circoscrivere un oggetto di
indagine. Mentre nella clinica l’oggetto di indagine è l’intera persona, nella
ricerca neuropsicologica l’oggetto di indagine è costituito dalla struttura
cerebrale che sovraintende alla lettura e alla scrittura nonché dai processi di
funzionamento di questa struttura. Nella lettura e scrittura il meccanismo è
combinatorio di sillabe e non ha nulla a che fare con i significati. E’ un
sistema di convenzioni arbitrarie cui noi attribuiamo significati attraverso
altre parti del cervello. Il punto di osservazione da cui guardiamo il nostro
oggetto di indagine è decisivo per i risultati della ricerca. Che cosa
acquisisce un bambino quando impara a leggere e scrivere? Quali risorse neuro
funzionali vengono messe in campo? La ricerca tenta di definire un modello
della struttura del sistema che sovraintende alla lettura e scrittura. La
struttura di un sistema linguistico è data dalle unità fisiologiche di base, le
sillabe. Componendo le sillabe è possibile comporre un numero infinito di
parole. Il bambino deve arrivare all’intuizione della componibilità delle
sillabe. Meno del 2% della popolazione infantile è DSA, ma i bambini con
difficoltà di lettura e scrittura sono almeno il 12%. Il Prof. Cossu ha
riconosciuto che i sistemi diagnostici vigenti non favoriscono l’aiuto dei bambini.
La ricerca neuropsicologica consente, già ora, in caso di disabilità, di
trovare “il pezzo rotto della macchina”. Di qui la messa a punto delle prassi
riabilitative o abilitative. Il Prof. Cossu ha poi raccontato i progressi che
si sono fatti nella conoscenza dei processi che governano la lettura e la scrittura.
I sistemi di lettura sono sistemi parassiti rispetto alla lingua. Se la lingua
funziona male il sistema ortografico ne risente. Tutti i sistemi ortografici
sono sistemi di rappresentazioni di unità sub lessicali
e e quindi non rappresentano il significato.
La ricerca ha dimostrato come il circuito per l’apprendimento dell’ortografia sia
sempre il medesimo nelle varie parti del mondo e tra le varie culture, ma nel
caso della lingua inglese si attiva maggiormente la componente visiva.
Posto che la mente funziona a pezzi il prof. Cossu ha
spiegato che vi è una modularità nell’apprendimento delle diverse funzioni che
favoriscono/impediscono l’apprendimento e questo risente di una
multifattorialità (componente biologica e componente psicologica). Lo studio
della multifattorialità rende evidente il coinvolgimento di un numero talmente
grande di variabili che resta difficile isolare le cause dagli effetti.
Certamente, sostiene il prof. Cossu, è necessaria
una quanto più attenta analisi della struttura del sintomo (cosa sbaglia, come
sbaglia e la soluzione che il bambino trova) perché individuare questo permette
anche di proporre sotto il profilo neurocognitivo dei correttivi.
Il Dr. Marco
Mastella ha
apprezzato l’utilità della ricerca neuropsicologica tesa ad evidenziare i
processi di funzionamento normale della mente e i fenomeni sottesi alle
disabilità. Ha riscontrato tuttavia i limiti delle scelte operative della
Sanità Pubblica (in particolare i sistemi diagnostici introdotti nelle
istituzioni pubbliche e private a seguito della Legge 170/2010 e della Consensus Conference) che fonda attualmente
le proprie prassi esclusivamente su modelli cognitivo comportamentali che
marginalizzano nei metodi di indagine gli affetti e le relazioni familiari. Ha
poi fornito una rassegna dei principali contributi scientifici sui DSA: una
parte di tali contributi sostiene l’esistenza di una peculiare vulnerabilità
neurobiologica dei bambini (soprattutto dislessici) che sarebbe all’origine dei
disturbi e del successivo disadattamento scolastico; un’altra parte, di
ricercatori di indirizzo psicoanalitico, mettono in evidenza le correlazioni
tra i disturbi di apprendimento e le fantasie, i vissuti e le esperienze della
prima infanzia di questi bambini. Ha concluso il suo intervento mostrando
attraverso un video i progressi di un bambino dislessico in psicoterapia
psicoanalitica.
Il dibattito della mattina oltre a colleghe e
colleghi psicoterapeuti dell’infanzia ha visto anche gli interventi di alcune
insegnanti, le quali hanno evidenziato la difficile gestione dei bambini con
diagnosi DSA in classe anche in virtù dei provvedimenti dispensativi e
compensativi ed il rischio di esclusione o di marginalizzazione che ne deriva.
Gli insegnanti hanno anche lamentato la mancanza di interlocutori istituzionali
con cui avere un confronto.
Il Dr.
Massimo Nardi ha coordinato le relazioni del pomeriggio. Nella sua introduzione il
Dr. Nardi ha richiamato la metafora del cigno nero utilizzata da Popper e
richiamata la mattina dal Prof. Cossu per proporre un parallelismo con i
bambini cigno nero che gli psicoterapeuti incontrano nel corso del loro lavoro.
Il vertice psicoterapico riesce a mantenere un quadro d’insieme della persona
all’interno del quale si colloca anche il disturbo di apprendimento. In
psicoterapia si lavora anche sul dare un senso e un significato a questo o quel
disturbo. I soggetti che sono coinvolti nelle diagnosi di DSA verosimilmente
vivono drammaticamente questa loro diversità: i bambini si accorgono di essere
considerati disabili e ne soffrono. Occorre inoltre che la psicoanalisi faccia
autocritica sulle origini psicogene dei disturbi evolutivi così come si è fatto
con l’autismo in quanto non c’è solo una origine psicogenetica ma anche
biologica.
La Dr.ssa
Elisabetta Greco ha sostenuto che nella individuazione dei disturbi di apprendimento
“l’individuazione e la definizione di un qualche difetto di abilità è
sicuramente utile a descrivere come mai il proprio studente o bambino non ‘funzioni’
come ci si aspetterebbe di fronte ai consoni compiti evolutivi, ma è anche
(tale tipo di diagnosi) uno strumento incompleto, che si attiene alle
caratteristiche di superficie del disturbo e non informa affatto della
condizione che lo ha provocato, tantomeno indica le migliori strategie di
intervento”. Ha poi aggiunto che la distinzione tra vari tipi di disturbi di
apprendimento “è utile per motivi diagnostici e prognostici, ma nel mio
pensiero mi raffiguro un continuum di condizioni fenotipiche in cui si possono
manifestare i diversi disturbi di apprendimento, che vanno dalle alterazioni
dello sviluppo più gravi a quelle più lievi o alle subcliniche, fino ad
arrivare alle condizioni in cui alcune abilità si presentano invece potenziate”.
Infine ha illustrato tre casi di bambini con diagnosi “descrittiva” di
dislessia seguiti con psicoterapia psicoanalitica che sono migliorati sia come
sviluppo dell’identità sia come attenuazione del sintomo dislessico.
Le relazioni delle Dottoresse del Gruppo di Studio
Alfa (dott. sse Bussolotti Federica,
Canalini Valentina e Lo Presti Valentina), psicoterapeute infantili del
Centro Studi Martha Harris di Bologna, modello Tavistock, riguardavano
situazioni cliniche di bambini con Disturbi Aspecifici dell'Apprendimento. Due
situazioni, in particolare presentavano bambini con disturbi del linguaggio che
– stante l’attuale sistema diagnostico istituzionale e la prevalenza, sul
mercato, di interventi riabilitativi – avrebbero potuto in seconda elementare
essere diagnosticati DSA. Le due psicoterapie hanno svolto una funzione
preventiva poiché i bambini hanno acquisito, attraverso la psicoterapia, un
linguaggio adeguato per la loro età, ma prima di tutto una intenzionalità
comunicativa.
Era interesse delle psicoterapeute mostrare che nei
casi in cui il bambino si attarda nello sviluppo emotivo, affettivo e
relazionale svelando un sé troppo primitivo, il ritardo del linguaggio e di
apprendimento sono una possibile conseguenza. Il trattamento di elezione in
questi casi è la psicoterapia psicoanalitica.
La Dr.ssa
Maria Luisa Mondello ha presentato un lavoro dal titolo singolare: “Leggere e scrivere;
disturbo da stress post traumatico da a, A, a, A”. La ricerca neurobiologica e
la clinica psicoanalitica, sempre meglio integrate, spingono a considerare la
crescita infantile come frutto di un complesso dispiegarsi e connettersi di
componenti micro-macro-bio-genetico-psichico-relazionali. Siamo corpo che è
mente, naturalmente culturali, genetica che dialoga con l’ambiente. I bambini
imparano a parlare all’interno di una finestra temporale che va dai 18 mesi ai
tre anni mentre imparano a leggere e scrivere all’interno di una finestra
temporale che va dai 4 anni ai 7 anni. Indipendentemente dalle aspettative degli
adulti e dai programmi scolastici, è indifferente se un bambino rispetta i
tempi o si attarda all’interno della finestra sopra descritta. Perché questo
apprendimento avvenga non è necessario un insegnamento sistematico: il bambino
impara se può esprimere il suo desiderio di fare come i grandi ed orientarsi
nel mondo. Ogni bambino ha i suoi tempi. Da questo punto di vista le forzature
che possono calare sul bambino dal mondo della scuola o dalla famiglia
costituiscono un ulteriore appesantimento che peggiora la situazione.
Il linguaggio compare nel libero gioco acquisitivo
frutto di una naturale propensione del piccolo, accompagnato da inviti
affettuosi di nonni, zii e genitori a dire di volta in volta: mamma o papà o
altro, ma senza insistenze prestazionali, senza insegnamento metodico.
Le 20 parole allo scoccare dei 2 anni sono un
criterio puramente statistico: la mancata acquisizione dovrebbe incuriosire ad
interessarsi dello sviluppo globale del bambino e non sfociare meccanicamente
in una logopedia. La scuola materna ha assunto però negli anni sempre più le
caratteristiche di un percorso pre-scolastico piuttosto che porsi nella
continuità dell’attenzione “materna” alla crescita. Non ci sono voti o
promozioni alla scuola materna, ma è costante l’essere invitati, e in un ovvio
confronto, a “funzionare” come gli altri. Non è sillabare a un bambino le
parole o spingerlo a scrivere negli spazi, che “insegna” a un bambino a parlare; occorre che il bambino
colga nel parlare o nello scrivere il modo per soddisfare i propri desideri nel
rapporto con quegli adulti che si occupano di lui. In questo senso l’adulto
deve proporsi come modello che attribuisce valore ai discorsi. Non c’è aspetto
della vita mentale e della crescita che non si nutra della sostanziale
relazione con l’altro. Apprendere è implicito ed esplicito. Tutto quello che i
bambini apprendono e realizzano nella prima infanzia non sembra avere necessità
di essere prima pensato e poi amministrato in dosi piccole e rese concatenabili
dall’adulto. I bambini non hanno bisogno delle istruzioni per l’uso. La lettura
e la scrittura, come il linguaggio, sono nella disponibilità del bambino a
patto che li incontri con piacere, interesse, desiderio, potendo fare,
soprattutto fare, fare. Con le proprie mani e non schematizzati dalle pratiche
scolastiche. Gli esercizi propedeutici proposti a scuola pretenderebbero come
nell’addestramento militare che tutti marcino con lo stesso ritmo e cadenza. Ma
non tutti i bambini sono uguali ed hanno gli stessi tempi di sviluppo. Ho
coniato pensando ai bambini che hanno tempi diversi, parafrasando il DSM, la
voce “sindrome da stress post traumatico da “a, A, a, A”. Essere esposti prima
di aver maturato la propria esperienza appassionata nel mondo delle parole, del
leggere e dello scrivere, è come mettere in piedi un bambino che non è pronto a
camminare e provare ad insegnarglielo.
Sarà interessante – ma ancora così non è – poter
apprezzare sul piano della ricerca neurobiologica un restringimento del campo
dei disturbi specifici di apprendimento rispetto all’attuale dilagare
diagnostico. Ciò sarà forse possibile dopo aver distinto i disturbi di
apprendimento legati al fitto dialogo tra la relazionalità interumana e le spinte
corporee. In questo modo sarà forse possibile restringere il campo dei DSA a
condizioni primarie di disfunzionalità cerebrale da accogliere ed a volte
vicariare.
Dott.ssa
Michela Salerni
Loreto, 30/4/2016