mercoledì 15 giugno 2016

I DISTURBI DI APPRENDIMENTO SONO DAVVERO “SPECIFICI”?

Si sono spenti i riflettori sul convegno del 9 aprile 2016 scorso sui disturbi specifici di apprendimento con soddisfazione per il successo di pubblico e per i numerosi riconoscimenti di valore manifestati in modo aperto e autentico dalla stragrande maggioranza dei partecipanti. Nel clima di fervore post convegno e proprio in virtù delle differenti posizioni emerse ai margini e dopo, siamo ancora a chiederci – come nel gioco dell’oca - Perché un convegno sui DSA?
Le ragioni erano e restano molte. la rivolta politico sociale nei confronti di una legislazione inadeguata a tutelare i bambini, Il desiderio di conoscenza scientifica e con esso l’apertura verso le neuroscienze che, a partire da un punto di osservazione e da un oggetto osservato diverso da quello psicoanalitico, stanno portando un grande contributo alla conoscenza del mondo dell’infanzia; una preminenza di mercato della riabilitazione neuro cognitiva o della logopedia spacciati come gli unici rimedi per i bambini con disturbi di apprendimento.
Ma la madre di tutte le domande era e resta: esistono i “disturbi specifici di apprendimento? O meglio: posto che i disturbi di apprendimento esistono, esiste il costrutto DSA così come formulato dall’ICD-10 e adottato dalla Consensus Conference e dagli atti ministeriali?
Quando questo convegno è stato concepito, la risposta a questa domanda probabilmente non era chiara per nessuno di noi. O meglio: esisteva un fondato sospetto della inutilità di tale costrutto, ma di fronte a un Parlamento Italiano che ha ritenuto addirittura di dover legiferare in proposito e di fronte a monumenti quali l’ICD-10, il DSM 5 o i documenti ministeriali che hanno preceduto e seguito la Legge n. 170 del 2010 il nostro sospetto di inutilità poteva sembrare quasi incredibile e temeraria ogni critica.
Nel 2016 il dilemma si è rivelato non poi così peregrino visto che in pochi mesi stanno fiorendo convegni nei territori del Centro Nord promossi da parti del Movimento Psicoanalitico:

  • 5 marzo all’AIPPI di Roma;
  • 12 marzo al Niguarda di Milano;
  • 12 Marzo nella sede del Centro Bolognese di Psicoanalisi;
  • 9 aprile il nostro Convegno di Loreto;
  • Settembre prossimo di nuovo all’AIPPI di Roma;
  • Novembre prossimo presso il Centro D’Intino a Pavia ecc….;
Solo per citare le iniziative attualmente conosciute. E’ la riprova che la questione ha una sua ragion d’essere, urgente e pressante.
Che esista la dislessia, la disortografia, la discalculia e la disgrafia non è in discussione. Ma ciò che qualifica il costrutto del DSA è la “S”, cioè la “specificità” del disturbo su base neurobiologica in virtù della quale si presupporrebbe che esista un bambino felice ed equilibrato che, ohibò, per una fallace maturazione del sistema nervoso, non automatizza i meccanismi di funzionamento di quelle parti del cervello che sovraintendono alla lettura, scrittura, calcolo ecc.
La “specificità” del disturbo è la chiave di tutta la questione posta. E per questo motivo la figura del neuro scienziato al nostro Convegno era indispensabile: per chiarirci in virtù di quali ricerche, di quali fatti osservati e di quali interpretazioni si sostiene la specificità neurobiologica dei disturbi. Perché adottando un punto di osservazione clinico… questa base neurobiologica non la si vede. E questo, della “specificità”, è aspetto dirimente per la sostenibilità del costrutto di DSA. Senza la specificità neurobiologica non c’è DSA. Ma DAA (disturbo aspecifico di apprendimento). Nel corso degli ultimi decenni è stata prodotta una grande quantità di ricerche neuro scientifiche che hanno individuato delle correlazioni tra ad esempio l’esistenza di una dislessia ed una particolare reattività di specifiche aree del cervello. Ma come valutare tali correlazioni? In virtù di esse autori i più disparati hanno coniato molte teorie sull’origine neurobiologica della dislessia…teorie appunto, cioè interpretazioni non incontrovertibili.
Nel campo dell’autismo le neuroscienze pare abbiano trovato fattori circostanziati che da più parti sono ormai riconosciuti come fattori di vulnerabilità corporea di base o neurobiologica. E’ probabile che possano esistere anche per i disturbi di apprendimento alcuni fattori di vulnerabilità corporea di base che rendono questi bambini svantaggiati fin dall’inizio della vita. Ma sappiamo anche che le cellule corporee entrano in contatto con l’ambiente fin dallo stato di gravidanza della madre e che questo ambiente è in grado di condizionare la selezione dei geni (attivi o silenti) e i meccanismi di riproduzione delle stesse cellule nervose. L’intreccio tra natura e cultura, tra base biologica e ambiente in cui il soggetto è immerso costituiscono un unicum inestricabile fin dagli albori della vita. Ragion per cui noi diciamo che il soggetto è una unità somatopsichica e che non è possibile conoscerlo separando il corpo dalla psiche.
I fautori del costrutto del DSA invece fanno proprio questo: considerano il corpo come una macchina di cui indagare i processi di funzionamento evitando di occuparsi delle emozioni del soggetto e delle sue interazioni con l’ambiente. Sostanzialmente tali fautori, non occupandosene, sembrano denegare l’esistenza e l’importanza del mondo emotivo-relazionale. Il costrutto del DSA si basa su tale diniego: nella definizione della classe ICD-10  F81 il manuale statistico diagnostico recita: “Le condizioni incluse in questa sezione hanno in comune: a) un’insorgenza che invariabilmente si colloca nella prima o seconda infanzia; b) una compromissione o un ritardo nello sviluppo di funzioni che sono strettamente connesse con la maturazione biologica del sistema nervoso centrale; c) un decorso continuo, senza remissioni e recidive.” . Nella Consensus Conference si allude anche a test per misurare l’intelligenza che non deve risultare deficitaria. L’intelligenza cui si allude è quella testata con la WISC e similari, test utile ma altamente riduttivo rispetto alla complessità della persona. Si precisa inoltre che la diagnosi di DSA può essere stilata solo dopo i sette anni di età del bambino: nella batteria di test consigliata anche a livello ministeriale il bambino sottoposto a valutazione funzionale deve risultare al di sotto della seconda deviazione standard in gran parte delle prove previste, ma alla WISC deve mostrare un QI nella media. I test sondano le capacità di lettura e di comprensione del testo, le capacità ortografiche e di calcolo senza minimamente tenere in conto la storia affettiva e relazionale del bambino. Né i protocolli diagnostici in voga sono vincolanti in tal senso. I criteri adottati e conseguentemente gli strumenti si limitano a sondare il funzionamento di alcune abilità considerandole slegate dalla persona nel suo insieme. Che cosa ci può rappresentare dunque una diagnosi di questo tipo, a noi che siamo abituati a considerare ogni bambino in tutta la sua complessità? Nelle teorie e nei percorsi di formazione delle scuole a orientamento sistemico-relazionale si usa utilizzare lo strumento della mappa per rappresentare, semplificandole graficamente, le relazioni tra individui e nel gruppo, in analogia con le mappe geografiche che sono una semplificazione in scala della realtà. Ma nella fattispecie del costrutto di DSA non ci troviamo di fronte neanche a delle mappe della complessità, quanto piuttosto ad una descrizione riduttiva del bambino per via di dissociazione e diniego, in cui una parte della realtà del bambino non è semplificata ma più radicalmente mozzata e ignorata.
E poi, che cosa ci può – a quell’età - mai dire una diagnosi siffatta a sette anni del bambino, sulle cause di un disturbo di apprendimento, quando nella vita del bambino è già successo di tutto, quando il bambino ha già vissuto fatti relazionali decisivi per la sua formazione e il suo sviluppo futuro, fatti che con quel metodo e protocollo diagnostico non vengono minimamente considerati?
Si ha l’impressione che alcuni attuali sostenitori in Italia dell’esistenza dei DSA ci presentino delle semplici correlazioni tra il disturbo di apprendimento e il comportamento di alcune aree del cervello come la causa (causalità lineare) del disturbo. A noi pare che le correlazioni dei neuro scienziati, al di fuori del danno cerebrale accertato, hanno lo stesso peso delle correlazioni trovate dagli psicoanalisti nel corso del loro lavoro di ricerca. I neuro scienziati osservano correlazioni tra il disturbo e alcuni assetti cellulari; lo psicoanalista individua le correlazioni tra il disturbo ed alcuni aspetti ambientali. Nessuno dei due può sostenere che la correlazione trovata corrisponda alla causa (lineare) del disturbo. Si può dire solo che sono state individuate delle correlazioni tra fattori e sintomo, ma non la causa.
A tale proposito è interessante un testo di alcune lezioni tenute all’Università di Roma da Cesare Cornoldi (Cfr. “Pegaso-Università telematica; lezione: varietà dei disturbi specifici di apprendimento”) e pubblicate nella rete, di cui riportiamo qui di seguito alcuni brani. Cesare Cornoldi è uno psicologo cognitivista che tra i primi in Italia ha studiato i disturbi di apprendimento e messo a punto con la sua équipe alcuni test specifici per sondare le abilità linguistiche dei bambini, test “MT” che rientrano nell’elenco consigliato dalla Consensus e dal Ministero per la diagnosi di DSA nei servizi pubblici e privati convenzionati:
“L’approccio ‘neurocostruttivista’ allo sviluppo normale e patologico (per una rassegna si vedano Karmiloff-Smith, 1998; Ansari e Karmiloff-Smith, 2002; Scerif e Karmiloff-Smith, 2005) riconosce pienamente il ruolo dei vincoli biologici innati (fattori genetici), ma – diversamente dagli innatisti – considera questi vincoli meno forti e meno dominio-specifici, distanti e distinti dalle funzioni neuro cognitive di ordine superiore. Considerando il protratto periodo di sviluppo post-natale necessario alla formazione delle funzioni dominio-specifiche della neocorteccia, si ritiene che è il processo di sviluppo stesso a giocare un ruolo cruciale nel determinare il risultato finale. In questa prospettiva, la modalità di elaborazione degli stimoli ambientali da parte del bambino viene costantemente influenzata dal suo livello di sviluppo e la rappresentazione dominio-specifica (i.e., il modulo) è solo il risultato finale dell’intero sviluppo (…) la questione della compresenza di più disturbi (la cosiddetta comorbilità), molto rilevante nella pratica clinica viene liquidata da alcuni approcci biologici, come semplice disturbo associato, ma non causalmente legato al DSA. La logica sottostante è quella di una rigida applicazione di un modello in cui un’unica causa sarebbe alla base di uno specifico DSA (…) Molti dibattiti e controversie circa le basi neuropsicologiche dei DSA nascono proprio da una scorretta applicazione della logica neuropsicologica cognitiva mutuata dall’adulto, in cui i modelli deterministici di tipo uni-causale possono realmente spiegare il deficit di una funzione specifica (e.g., sintesi fonologica) corrispondente al modulo danneggiato (e.g., memoria fonologica) oppure al circuito neurale alterato o disconnesso. Invece, durante lo sviluppo, una funzione neuropsicologica difficilmente può essere ridotta ad un insieme di moduli che compongono un circuito precostituito. In concordanza con queste osservazioni, gli emergenti modelli causali hanno riconosciuto la natura probabilistica e multifattoriale delle disfunzioni neuropsicologiche sottostanti ai DSA (e.g., Pennington, 2006). Riassumendo, l’approccio neuro costruttivista interpreta il DSA come il risultato distale e indiretto di disfunzioni di processi di elaborazione precoci (e.g., l’atipico sviluppo delle abilità visive e uditive di base per la dislessia e delle abilità numeriche di base per la discalculia) piuttosto che come il risultato di uno specifico modulo cognitivo danneggiato (e.g., danno del modulo ‘fonologico’ per la dislessia e del modulo ‘numerico’ per la discalculia). Diversamente dagli empiristi, i neurocostruttivisti riconoscono il ruolo di specifici fattori innati (e.g., fattori genetici), ma, diversamente dai classici approcci neuropsicologici, assumono che questi abbiano inizialmente un effetto ampio e diffuso (dominio-rilevanti), diventando dominio-specifici con i processi di sviluppo e con le specifiche interazioni ambientali. In questa prospettiva, i moduli sono considerati il risultato finale di processi evolutivi di ‘modularizzazione’. Una importante conclusione a cui conduce l’approccio neuro costruttivista applicato alla neuropsicologia evolutiva è che i DSA non sono così specifici, come lo sono invece alcuni disturbi acquisiti. Quest’ultima conclusione trova una fortissima conferma nella realtà della pratica clinica in cui, ad esempio, un bambino dislessico è molto probabilmente anche disortografico, disgrafico, discalculico, e spesso manifesta sintomi di disturbo da deficit dell’attenzione, o della coordinazione motoria.”
Tutto ciò premesso a noi sembra che il costrutto “DSA” è privo di fondamento poiché si basa sulla specificità neurobiologica dei disturbi che …non esiste visto che le cause appaiono sempre più come multifattoriali.
Se il DSA non esiste, l’idea di raccontare al Convegno una psicoterapia di un bambino con DSA era compito impossibile. E infatti i casi presentati al convegno avevano disturbi di apprendimento e di linguaggio aspecifici (DAA), cioè con eziologia multifattoriale. La bellezza dei casi presentati risiede proprio nel fatto che i bambini trattati con psicoterapia psicoanalitica hanno ripreso il loro sviluppo in modo armonico e sono vistosamente migliorati sia per gli aspetti relazionali che per quelli curriculari scolastici rilevabili attraverso le insegnanti, ivi compresi la lettura, la scrittura e il calcolo. In definitiva, l’aspettativa di ascoltare il racconto di trattamenti di bambini con diagnosi di DSA si fondava sul principio della veridicità di tale diagnosi che a nostro avviso vera non è e non poteva esserlo per i motivi precedentemente espressi.
Le questioni da noi sollevate hanno acquistato, negli ultimi sei anni, a livello sociale e politico, una rilevanza di primo piano: per il numero di bambini coinvolti ha ormai uno spessore maggiore, rispetto alla questione recentemente assurta alla ribalta nazionale, del cosiddetto spettro autistico. Come per l’autismo abbiamo assistito a prese di posizione di associazioni private e di società scientifiche che hanno conquistato l’attenzione e la fiducia del Parlamento Italiano in virtù di una scientificità delle loro tesi che si stanno rivelando scientifiche tanto quanto altre che non sono state prese in considerazione dagli organismi istituzionali dello Stato. Come per l’autismo sarebbe auspicabile che la SPI e le società scientifiche a indirizzo psicodinamico prendessero posizione stigmatizzando questi orientamenti pseudoscientifici che non fanno bene ai bambini. I dettami della Consensus Conference, i protocolli diagnostici scaturiti da quei documenti e fatti propri dalle Regioni con tanto di quantificazione dei tickets corrispondenti per le valutazione funzionali dei bambini, sono diventati un meccanismo seriale stritolante da cui i professionisti dei servizi pubblici non riescono – se non a rischio di infrangere la legge – a sottrarsi. Questo esito, di cui certo cognitivismo neuropsicologico porta la responsabilità maggiore, deve essere contrastato nell’interesse generale della salute pubblica.

GRUPPO DI STUDIO ALFA ANCONA
 Loreto, 23/05/2016